A BOLZANETO “ATMOSFERA CILENA”:
IL RACCONTO DEL MAGISTRATO

roberto settembre QLL 2LECCO – Un libro per ridare dignità umana alle vittime. Questa la motivazione che ha spinto Roberto Settembre, magistrato d’Appello al processo Bolzaneto, a scrivere “Gridavano e Piangevano“. L’incontro con l’autore ospite di Qui Lecco Libera.

Quello che è successo all’interno della caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova nel 2001 è stato dimostrato. Centinaia di esseri umani sono stati privati della propria dignità con pratiche di tortura. L’estinzione del reato ha però segnato il fallimento del processo giudiziario.

E la narrazione, dunque il libro, è rimasto l’unico strumento in mano al magistrato per restituire ai protagonisti delle deposizioni, vittime di torture, il riconoscimento della loro realtà di esseri umani.

“A Bolzaneto le persone sono state trasformate in oggetti – racconta il giudice Settembre ad un’assemblea attenta e partecipe – ed il messaggio veniva messo in chiaro fin da subito. I fermati erano accolti da un ‘Benvenuto ad Auschwitz’, frase che nega ogni essenza umana, parole che a chiunque portano alla mente la negazione di ogni diritto. Ed infatti gli ospiti di Bolzaneto, il luogo in cui i fermati sarebbero dovuti passare per le procedure di convalida dell’arresto, trascorsero ore privati di ogni diritto, in condizione di totale spersonificazione”.

Gridavano e piangevano - copertina

Il magistrato ricorda altri fatti di quel luglio 2001 a Genova. Le cariche delle forze dell’ordine su cortei autorizzati; ordinate con l’intento di disperdere i manifestanti in luoghi però privi di vie di fuga. Il massacro della Diaz, dove i processi portarono alla luce violenze efferate, ma il tutto avvenuto in un arco di tempo determinato e relativamente breve: 30 minuti.

A Bolzaneto invece 260 persone, italiani e stranieri, giovani e anziani, persero il senso di identità umana a causa di vessazioni e intimidazioni prolungate per ore, quando ai danni fisici si aggiunsero quelli psicologici con conseguenze che incisero sulla vita delle vittime anche negli anni successivi.

Il processo d’Appello ha operato sui documenti, sulle testimonianze raccolte nel primo grado, sulle cartelle mediche, sugli ordini di servizio. Quello che emerse fu la macroscopica operazione di distruzione dell’umanità delle persone.

Vennero così riconosciuti oltre cento capi d’imputazione per i 43 pubblici ufficiali chiamati alla sbarra. Gli agenti di polizia praticarono quello che è lecito chiamare tortura, per volontà o per imposizione. Nel processo nessuno di loro negò i fatti: la difesa fu incentrata sul non aver sentito o visto ciò che accadeva.

roberto settembre QLL platea

Sottoposti a vessazioni fisiche e minacce verbali, i fermati subirono pratiche di annullamento di sé tipiche di Gestapo e Kgb. “Come se un sadismo contagioso avesse colto i rappresentanti dello Stato”.

Ma nessuna stanza della caserma, un edificio di piccole dimensioni, fu risparmiata dall’ “atmosfera cilena“. Il sottofondo di urla e grida accompagnò costantemente i “detenuti” nel via-vai tra i diversi uffici per la convalida dell’arresto (Digos, infermeria, celle di attesa, penitenziaria).

L’assenza del reato di tortura nel codice penale è stato però decisivo ai fini della sentenza del processo per Bolzaneto. La prescrizione garantì impunità ai responsabili, nonostante la comprovata veridicità dei gravissimi atti di cui si macchiarono. Inoltre non venne presa alcuna decisione disciplinare.

Non è mancato in una sala Ticozzi (tecnologicamente non all’altezza delle sue funzioni) un richiamo al lecchese Roberto Castelli. All’epoca dei fatti e fino al 2006 ministro di Giustizia, egli rivelò di aver visitato la caserma e aver notato dei detenuti nella “posizione del cigno”, senza che gli sorgesse alcun interrogativo riguardo alle pratiche di tortura in atto (qui il filmato di QLL – anno 2008).

Cesare Canepari