TEATRO PALLADIUM COMMOSSO
PER “ACCABADORA” DELLA MURGIA,
RACCONTO DELICATO E POETICO

accabadora1_Marina AlessiLECCO – C’è un incrocio di sensibilità femminili alla base dell’intenso spettacolo che ha commosso la platea lecchese al Cine-Teatro Palladium, martedì 27 febbraio, tratto dal romanzo Accabadora (Einaudi, 2009) di Michela Murgia. La raffinata scrittrice è attenta al contemporaneo, di cui sa scoperchiare le storture (Il mondo deve sapere, 2007, sulla vita precaria nei call center) o gli intimi segreti (Chirù, 2015, sui rapporti di potere fra maestra e allievo). È un’attivista pragmatica, la cultura e la Sardegna sono le cifre del suo impegno intellettuale, che recentemente l’ha vista impersonare la scrittrice sarda Grazia Deledda nello spettacolo teatrale Quasi Grazia, per la regia di Veronica Cruciani.

Questa sensibile regista, molto apprezzata da pubblico e critica, propone storie per riflettere. Folgorata dalla lettura del romanzo della Murgia, insieme alla drammaturga Carlotta Corradi, ha trasformato il testo in un denso monologo centrato sulla figura della giovane Maria, interpretata da Monica Piseddu, attrice pluripremiata di origini sarde.

La scena è spoglia: una panca, una sedia e un pannello su cui sembrano essersi rovesciati e rappresi schizzi di calce. Una superficie scabra, rugosa, che potrebbe rinviare alla granulosità di una parete rustica, ma è soprattutto un muro mentale: solo in apparenza immobile, vibra in sinuosità inattese (ricreate da proiezioni), disegna profili di donna, creando specularità ingannevoli.

accabadora2_Marina AlessiMaria si presenta in jeans, scarpe da tennis e zainetto. Una giovane donna di città: racconta di Torino, città del “continente”, ordinata e razionale nella sua scacchiera di strade. Nulla a che vedere con Soreni, il paesello sardo dove Maria è ora tornata. È un momento cruciale, lo capiremo fra poco, e il passato gioca a rimpiattino con i ricordi. Il contorno della vicenda si definisce attorno al primo incontro con la sarta Bonaria Urrai, figura centrale. Maria nasce, quarta figlia, in una famiglia misera: «non l’avessi mai fatta! L’ultima figlia è di troppo» – dice la madre. Bonaria invece appena vede quella bambina, nel vestitino bianco macchiato di succo di ciliegie, capisce che per lei «il tempo della sterilità è finito» e la accoglie come sua “fill’e anima”: la accudisce e le sta vicina, come e più della madre naturale, spingendola a essere curiosa del mondo, a non accontentarsi, a istruirsi. Grazie a lei dunque Maria nasce per la seconda volta.

Ma per parlare meglio del passato, è necessario spogliarsi degli abiti cittadini. Da una fessura nel muro, che è però anche una simbolica ferita ancora aperta, Maria/Piseddu sfila dei vestiti, prima una sottoveste e poi un vestito nero. Da dietro il muro si levano suoni inquietanti: il guaito di un cane, stridori, e poi, sempre più forte e presente, un respiro, che gradatamente diventa urlo e rantolo di agonia. Maria infatti è tornata per assistere Bonaria, che sta morendo: muta e paralizzata, non può risponderle, e allora la “figlia” parla, racconta, ricorda, in uno sfogo che è tutto interiore. L’interpretazione della Piseddu è commossa, dolente e appassionata.

Pochi dettagli servono a tracciare il profilo di una Sardegna ancestrale, con i suoi riti, le superstizioni, i sapori di fichi e mandorle, la ruvida poesia di un mondo mitico, che si abbandona a passioni forti. La Sardegna rivive nei nomi, nelle tradizioni (a Ognissanti le porte delle case restano aperte per accogliere le anime dei morti) e in accenni dialettali di un parlato corposo che si sofferma sulle consonanti e le raddoppia, o risuona di echi antichi, come la parola “accabadora”, che viene dallo spagnolo “acabar”, cioè finire. Maria scopre che la sua amata Tzia è l’accabadora del villaggio, colei che dona la buona morte a chi vuole porre fine alla propria vita di sofferenza. Lo ha fatto anche con Nicola, un giovane che ha perso una gamba, per aiutarlo a sprofondare in un sonno senza ritorno. Maria, sconvolta dalla scoperta, era partita per Torino, perché, nella sua giovinezza impulsiva, non sapeva spiegarsi questo atto: «le cose che non si fanno, voi l’avete fatto: avete ucciso Nicola!». Solo adesso, donna matura, a poco a poco riesce a capire: la Tzia non era un’assassina, ma una madre pietosa che accompagnava all’ultimo viaggio. Ora però è Bonaria ad avere bisogno di aiuto, per vincere il dolore di una lunga e faticosa agonia, e Maria si farà coraggio per “liberarla”.

Un racconto delicato e poetico. Questo tempo sospeso, che la regista rende tempo memoriale e interiore, ha la capacità di alludere con grande forza all’attualità: i temi di testamento biologico, eutanasia, maternità di fatto, sono problemi etici che dividono l’opinione pubblica. Forse occorrerebbe meno arroganza distaccata e uno sguardo più “materno” di misericordia, come mostra questa straordinaria narrazione femminile a più mani.

Gilda Tentorio