NELL’UNDICESIMA DOMENICA
DOPO LA PENTECOSTE
MEDITAZIONE DI DON G. MILANI

Conosciamo bene la parabola, per lo meno intendo, ci sia sicuramente nota, ma quanto conta non è la narrazione, piuttosto che cosa il Signore Gesù voglia dirci, insegnarci come richiamo per noi; proviamo dunque a metterci al suo ascolto. Par certo le due figure siano estremizzate ad emblema, alla maniera forte – non inconsueta – all’insegnamento incisivo del Signore. Il ricco – senza nome – ricercato nelle vesti che “ogni giorno si dava a lauti banchetti”; è solo e totalmente ricco, chiuso nella propria prosperità; mentre il povero, Lazzaro, stava (anzi: ἐβέβλητο , era gettato) alla porta del ricco “coperto di piaghe”, non “di porpora e lino finissimo”, ”bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco”. L’unico legame tra i due pare il desiderio di Lazzaro, non del ricco (serrato nei propri agi e del tutto indifferente), “di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola” (brama forse impossibile dati gli impuri cani che persino gli leccavano le piaghe, quasi fosse una cosa, un oggetto, non una persona).

Quel che cadeva – notiamo – non eran avanzi di cibo, ma il super-superfluo, le molliche a deterger le dita e gettate, ormai inutili, sotto la mensa dai commensali, a banchetto, nell’uso antico senza posate. Era dunque pane, pane gettato! L’estremizzazione di condizione non può esser più calcata: l’uno nella ricchezza più voluttuaria… l’altro, neppur persona. Attenzione a non esser sbrigativi nel dire a noi stessi: “Non son certo come l’epulone, né mi posso mettere in paragone a Lazzaro; dunque la parabola non riguarda me, posso solo vederla applicata ad altri!”. Così ci condanneremmo all’ottusità: Gesù parla a tutti e dobbiamo prestargli orecchio perché anche noi ci siamo di mezzo.
Notiamo come il racconto sia accurato nel non rilevare azioni malvage o virtuose in nessuno dei due personaggi, né nel – significativamente – anonimo ricco, né nel poveraccio cui Gesù dà nome emblematico (significa: Colui che Dio soccorre; così che a noi non paia nell’immediato, ma ci faccia riflettere all’Oltre); il racconto ci descrive solo condizioni e lascia a noi – fattici attenti – interpretare le figure e soprattutto la radice di bene e di male in quei simboli.

Così siamo noi a dover capire che non è nella ricchezza il male del ricco (la ricchezza è dono di Dio, però interpella chi la possiede a gestirla nella sua sequela). Il male è nella chiusura indifferente all’appello che la condizione di Lazzaro fa alla sua esistenza. Lazzaro è la sottile e sollecitante presenza del Signore (“I poveri li avrete sempre tra voi”: l’ha detto lui). “Io non sono ricco – ci vien da pensare – vado a bottega per guadagnarmi il pane e procurarlo ai miei, come può sollecitarmi la parola di Gesù?”. C’è fin dell’ovvio al guardare chi ha meno (sempre qualcuno è in categoria se so guardare con intelligenza attenta e carità sollecita); ma ancora, con incisività più vera sulla mia vita, la parabola mi dice dello sguardo del Padreterno sulle cose, le situazioni, le persone.

 

Don Giovanni Milani