QUARTA DOMENICA DI PASQUA:
MEDITAZIONE DI DON G. MILANI

Con il brano che la liturgia ci offe in questa domenica, siamo nelle narrazioni intensamente meditative dei discorsi dell’ultima cena che ci riportato Giovanni. Con questi discorsi, per certo verso, Gesù si congeda umanamente dai discepoli, ma più profondamente comunica loro la pienezza del suo messaggio, non parola, pur preziosa, ma dono d’amore che da Dio, il Padre, discende nello stesso Signore Gesù perché si comunichi ai discepoli, a tutti gli uomini. Il senso più profondo di questa – come d’ogni – comunicazione di Gesù è la sua volontà di passare ai discepoli – dunque a noi – quanto ha di più ricco e profondo: l’esperienza divina d’amore che condivide col Padre. È bello e forse più vero, leggere l’amore di Gesù per i propri discepoli di quel: “come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi”, non tanto nel senso dello stesso modo, piuttosto come conseguenza. Proprio perché, siccome, Gesù è amato dal Padre, ama noi.

Per l’amore che il Signore Gesù sperimenta nella Trinità, vive l’amore per i discepoli, per noi: l’amore che ci riversa non è solamente benevolenza di cordialità umana, ma è proprio l’amore di Dio per l’uomo: lo dimostrerà sulla croce. Ecco che capiamo meglio perché raccomandi: “Rimanete nel mio amore”. Facciamo qui attenzione al senso vero di quel “rimanere” che ha il parallelo alto, ancora una volta, nel rimanere di Gesù nell’amore del Padre. Non è certo un ricordarsi, nemmeno un fare memoria, piuttosto è essere, divenire, memoria: la memoria che è presenza attualizzata dell’amore di Gesù, lo stesso del Padre. È interessante e molto istruttivo il “comandamento” del Signore Gesù: “Che vi amiate gli uni gli altri”. Gesù ripropone tra i discepoli l’amore vicendevole, come il suo e che è il suo per loro, dove riproduce l’amore, il legame essenziale ed eterno, che lo lega al Padre: la realtà stessa di Dio.

Il comandamento d’amore di Gesù: “Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”, in un discorso d’addio come questo dell’ultima cena – come forse ci aspetteremmo – non lo vuole rivolto alla propria persona che resti ricordo nei discepoli che sta per lasciare; non è lui, la sua azione e persona umana che conta, ma il dono della realtà stessa del Padre, di Dio: questo deve rimanere. Diventa addirittura dono di un’esperienza che richiami, non legame umano a lui, ma riproduca il senso profondo della sua stessa esperienza intima e trinitaria nei discepoli. Gesù parla anche di amicizia con i suoi, non più di servitù. Se i grandi dell’AT come i Patriarchi: Abramo o Mosè, erano detti con titolo onorifico, Servi di Jahvè; i discepoli, sono addirittura innalzati da Gesù a condizione ancor più alta e onorifica, all’amicizia al partecipare all’intimità e al segreto del Signore (nel testo c’è: ὁ κύριος, non padrone, ma signore: il Signore).

 

Don Giovanni Milani