RELIGIONI: LA MEDITAZIONE
DI DON GIOVANNI MILANI.
3ª DOMENICA DI QUARESIMA

Il brano ci riporta il teso dibattito tra i Giudei (v’era chi aveva aderito al Signore Gesù, ma se ne ritraeva) e lo stesso Signore. Le tematiche polemiche si moltiplicano, ma il nodo fondamentale, almeno per il nostro interesse, è quello dell’essere figli: qui declinato in molti modi. È introdotto, nel ritaglio che ci è dato, dal tema della libertà che si pretendeva dipendesse alla discendenza d’Abramo, lì Gesù fa osservare – alludendo ad Ismaele, il figlio dalla schiava – che non ogni figlio di Abramo è libero, solo Isacco rimane nella casa (quante allusioni possiamo utilmente trovare).

Il Signore afferma che solo rimane libero chi “conosce la verità”; la sua verità, non è intellettuale: è l’avere esperienza del Signore (il “conoscere” biblico è proprio questo) e dunque praticarne le opere così si sarà liberi, cioè propriamente figli.

La contrapposizione sta tra la discendenza da Abramo materialmente intesa e quella vera, che ne riconosce i valori, aderisce con la vita; Gesù rileva l’essere figlio dalle opere: quelle dei Giudei che, come dichiarano “non sono nati da prostituzione” e pretendono Dio stesso per padre, sono invece in contrasto fino a desiderio omicida: vorrebbero uccidere Gesù e – come vediamo dal finale del brano – già hanno tra mano le pietre per scagliargliele contro, in una lapidazione che neppure sarebbe osservante la legge.

La disputa si svolge nel tempio – è interessante notarlo – il Figlio di Dio deve uscirne, allontanarsi dalla casa di Dio, dove trova minaccia: icasticamente troviamo rappresentata una religiosità, non solo vuota ma ormai così deviata che vi si attuino le opere del diavolo, il divisore. Non ci interessa seguire passo passo l’intera polemica anche più vasta della pagina; non lasciamo però l’affermazione di Gesù che dichiara Dio essergli padre: lo dimostrano le opere compiute e in contrasto con i suoi oppositori afferma la propria grandezza superiore a quella dello stesso Abramo: “in verità, in verità, prima che Abramo fosse, Io Sono!”.

Mette conto richiamare ancora l’uso dell’espressione, tanto ripetuta nel nostro testo, del conoscere che ha notoriamente senso ben più profondo del nostro aver noto, ma diventa il fare esperienza: per la Scrittura il conoscere implica una adesione vitale, neppure un assenso generico, piuttosto un’appartenenza profonda che coinvolge totalmente, dunque, è conseguenza di questo conoscere, l’agire: le opere, secondo conoscenza d’Abramo o addirittura dello stesso Dio (che Gesù afferma sconosciuto agli avversari che pur se ne dichiarano figli) sarà il bene; l’agire nel peccato, evidenzia la discendenza diabolica.

Il tema della libertà del figlio, credo, sia il più significativo e da raccogliere da noi che vogliamo – avvicinandoci alla Pasqua – riflettere sul dono del battesimo e della grazia.

Siamo figli nel Figlio e lo siamo per la grazia del battesimo. Un po’ per tutti noi, non è stata scelta cosciente: è stato dono di fede parentale e della maternità della Chiesa che ci ha dato, in saggia tradizione, modo di vita di grazia già dalla più tenera età.

A noi la ratifica di quella fede che ci ha introdotto per “rimanere sempre nella casa” così da conquistare con le “opere del Padre”, la libertà riconoscente dei figli.

Non possiamo solamente rimanere cristiani per una, pur cara, tradizione, saremmo come chi pretendeva la figliolanza d’Abramo per la sola generazione, per la nascita; noi, figli nel Figlio Gesù, lo siamo realmente se ascoltiamo l’insegnamento del Vangelo, nel nostro agire secondo l’amore cristiano, con le opere della fede che si traducono nella carità, virtù che – ricorda Paolo – non verrà mai meno.


Don Giovanni Milani