La tradizione cristiana dà questo titolo di Re, al Signore Gesù secondo eredità antica dalla Scrittura che lo chiama “consacrato” (משיח, Messia; Χριστός, Cristo: “unto” cioè consacrato dal Signore, come era appunto il re (ed anche il sacerdote: Gesù è re e Sacerdote) infatti l’antico lo dice Figlio di Davide: il Re, diremmo, per eccellenza nella tradizione ebraico cristiana.
Qui però ne facciamo ricordo come Re dell’Universo, intendendo che, come il Figlio – seconda persona della Trinità santissima – ha “presieduto” alla creazione, così la morte e resurrezione di Gesù – il Figlio fatto uomo nel seno di Maria – diventa Re e centro di una creazione nuova proprio dalla croce: ce lo dice così esplicitamente il testo nelle parole che rivolge a Gesù il secondo malfattore (il buon “ladrone” della tradizione popolare, Disma, secondo l’antica) e il Signore Gesù conferma il suo regno sia il paradiso (richiamo a genesi!).
Il titolo di Re, non è dunque attribuito secondo il significato che corre tra noi, ma in quello forte di derivazione biblica. Ancora: Re non di una nazione sola, ma di quella vasta, tutto-inclusiva generata da salvezza della croce che forma la creazione nuova.
La regalità di Cristo – come vediamo bene nell’inno di Filippesi – è di Signore–Re, proprio dalla croce, proprio per essersi fatto servo. Lo stesso termine di Servo troviamo anche nel carme d’Isaia, come d’un servizio che è accolto da Dio e gli fa esclamare: “È troppo poco che tu sia mio servo / per restaurare le tribù di Giacobbe / e ricondurre i superstiti d’Israele. / Io ti renderò luce delle nazioni, / perché porti la mia salvezza / fino all’estremità della terra”.
Questa regalità, che è conquista di vita, perché il Signore dalla croce vince la morte, ci sollecita: in quel sesto giorno sul calvario non è salvato (come nel sesto di creazione) solo l’uomo strappato alla morte eterna, ma si apre una creazione nuova per quello Spirito emesso (lo ricorda Giovanni) qui espresso nella promessa al “ladrone” buono, che riconosce giusta la propria condanna, ingiusta quella di Gesù (“lui invece non ha fatto nulla di male”).
Non è questa – mai nella liturgia – festa di pura contemplazione, ma sollecita ad agire, a farci salvati per grazia e capaci di partecipare a questa salvezza, per farci voce che proclama, ma, anche, forse più attivi nell’universo salvato, pure verso temi attuali – un tempo trascurati sin ad essere non pensati – quale l’attività nel creato a tutti i livelli fin materiali, per dare luce, pur nell’esiguità della nostra azione a valore: per nostra mano, con la collaborazione dell’uomo, il creato dovrebbe e potrebbe e assumere sua più giusta e luminosa portata.
Anche il tema ecologico, ci accorgiamo, potrebbe, o dovrebbe, entrare in questa salvezza donata cui dar pure noi mano.
Don Giovanni Milani