Lo conosciamo bene l’episodio del vangelo, anche perché ad ogni celebrazione di Messa, la liturgia ce ne fa richiamo riprendendo le parole di quel centurione pagano che si accosta con certezza di fede alla forza taumaturgica del Signore Gesù.
Richiamiamo la scena: Gesù è a Cafarnao dopo il grande discorso della montagna, già ha operato il primo miracolo narrato da Matteo: ha, toccandolo, mondato il lebbroso.
Gli si presenta questo centurione pagano che lo implora senza propriamente porre domanda esplicita, nella certezza di una sensibilità disponibile ed accogliente; solamente presenta la condizione di grande sofferenza del suo servo (in verità usa un termine di confidenza diffuso in quasi ogni idioma: ὁ παῖς μου il mio ragazzo): “Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente”.
Gesù pare subito condiscendente ad accorrere: “Verrò e lo guarirò”. Ma qui si leva il grande rispetto e la fede sicura di quel pagano nel diniego verso l’aperta disponibilità del Signore.
Con ogni probabilità conosce il precetto della legge per cui i Giudei, non dovevano frequentare i pagani, le loro abitazioni ed esclama quel: “non sono degno” giustificandolo anche con la certezza ne bastasse la parola: ne riconosceva la signoria sopra le debolezze fisiche quanto lui stesso nel suo campo militare aveva potere sui servizi comandati.
Gesù allora “meravigliato” da quella fede fuori dal popolo di Dio non ne esalta solo la figura credente, ma polemicamente fa annuncio: “molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti”. E pure le ultime parole di Gesù non lanciano imperativo di guarigione, ma, con benevola condiscendenza, ancora sottolineano il credere del centurione.
Ci accorgiamo allora che la comunicazione di questo vangelo e di questa domenica è certamente esortazione, su quell’esempio, alla fede, alla fiducia decisa nel Signore, ma ancora e più contengono la grande promessa della salvezza, non riservata al popolo che pure il Signore si era riservato a custodire promessa, ma ad ogni uomo.
L’esemplarità del pagano è davvero forte verso temi attuali quale la dignità della persona a prescindere da discendenze, razze, collocazioni sociali, ma anche ci dice della forza garbata dell’umiltà, virtù oggi poco riconosciuta e praticata. La splendida umiltà del centurione mi pare ci possa dire ancora altro, in questa nostra società di ostentazione di sé. Certo era ossequio al potere taumaturgico che riconosceva a Gesù, anche però sapeva collocarsi, di fronte al mistero, nella propria modesta condizione.
Quanto utile all’orgoglio tanto facile tra noi.
Don Giovanni Milani