DON GIOVANNI MILANI,
MEDITAZIONE NELLA SECONDA
DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Quanto ci è offerto lo leggiamo dal discorso della montagna del primo vangelo, dove il Signore Gesù già ha dichiarato d’essere venuto non ad abolir Legge e Profeti, ma a dar loro compimento, lo vediamo, proprio anche in questi versetti. Con grande autorevolezza il Signore vi mette mano e qui troviamo una quinta volta il ripetersi d’espressioni simili all’”Avete inteso che fu detto… ma io vi dico” che non vogliono certo contrapporsi alla legge, eppure indicare giustizia superiore a quella “degli scribi e dei farisei” … per entrare “nel regno dei cieli”. Gesù non vuole proporre una legge nuova, piuttosto un modo radicalmente nuovo di accostarsi alla Legge, non un nuovo modo d’adempier i precetti, piuttosto un viver sentendo la Legge come principio vivo, dinamico ed operativo che trova senso nel modo di essere di chi voglia seguire il Figlio di Dio. Propriamente in questi versetti siamo portati al centro del Vangelo, dell’annunzio di vita del Signore. Gesù, non cita alla lettera il Levitico, che pure già dava legge, prescrizione d’amore al prossimo; si rifà piuttosto al modo comune di portare nella pratica di vita l’antico precetto: favore per chi era ritenuto vicino alla Legge, in appartenenza al Popolo del Signore, ma distanza da chi non vi era riconosciuto. Il Signore, in considerazione ben più profonda, trasforma la norma da legge da adempiere, all’agire nella consapevolezza intima di appartenere all’amore del Padre, di essere dal suo amore riplasmati in figli.

Il modello è l’amore di Dio eguale per ogni suo figlio, buono o no. L’amore del Signore, non è secondo merito, ma è effusione di sé, di quell’amore che – sulla scorta della prima lettera di Giovanni – potremmo attribuire al suo essere stesso, alla sua natura amorosa e paterna. Dio ama a prescindere dall’amabilità dell’uomo, così ha da essere anche il nostro amore che ci fa riconoscere della stessa famiglia, ci fa riconoscere figli nel Figlio suo, per ogni uomo sacrificato per amore. Non dobbiamo dunque amare perché l’oggetto del nostro affetto sia amabile, ma per un amore che procede da noi stessi che, proprio secondo l’esortazione del Signore Gesù, ci siamo fatti – nell’amore – perfetti (τέλειοι, giunti a pienezza, completezza) quanto il Padre, capaci d’amore effusivo del proprio bene, non motivato da bontà o bellezza altrui. Qui, più che trovare precetto da adempiere, ci troviamo noi stessi innalzati a capacità (e dignità) divina nel concreto dei nostri giorni, quando siamo capaci di praticare l’amore che procede dalla nostra nuova natura di figli di Dio, donataci dall’innalzamento nella creazione nuova della morte e resurrezione del Signore Gesù.

 

Don Giovanni Milani