DON GIOVANNI MILANI,
MEDITAZIONE NELLA SESTA
DOMENICA DI PASQUA

Il breve brano evangelico che ci è offerto dalla liturgia di oggi è immediatamente seguente quanto abbiamo letto nella domenica passata: siamo dunque nei discorsi ultimi, i ‘discorsi d’addio’ che il Signore Gesù rivolge ai suoi. Rispondendo alle domande dei discepoli ed in particolare a Giuda non l’Iscariota, aveva fatto insistenza sull’amore per lui che l’avrebbe portato a prendere dimora nel discepolo insieme con il Padre. Il tono d’addio pare accentuarsi nel nostro passo, non certo nel senso dell’abbandono; il dono dello “Spirito santo che il Padre manderà nel mio [del Signore Gesù] nome” ne farà presenza (richiamiamo: nella Scrittura il ‘nome’ è forza e realtà stessa: presenza; il discorso giunge in continuità con quanto precede sul prendere dimora).

Lo Spirito “vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”. È immediato riconoscere nell’operare dello Spirito l’agire interiore che è insegnamento vero, profondo a far maturare intimamente quanto Gesù ha detto: questo non accresce nozioni, ma rende luminoso e concreto nella coscienza e nell’agire del discepolo quanto ricevuto. Così il ricordare, non è certo portare alla memoria, piuttosto rendere vivo nell’attualità storica del singolo, non meno che nella comunità credente e così anche nella vicenda del cammino umano universale, il crescere del dono pasquale, della creazione nuova. Poi Gesù parla del dono, del lascito della pace, tema tanto vibrante nella nostra attualità trepidante: “Vi do (lascio: ἀφίημι) la pace, vi do la mia pace”. Nel primo apparire ai discepoli lo stesso Gesù ne ripeterà il dono, ma anche noi, ad ogni celebrazione eucaristica lo ripetiamo riportando queste sue parole cui qui aggiunge: “Non sia turbato il vostro cuore”. L’insistenza è sulla pace “mia”: del Signore, “Non come la dà il mondo”; la pace mondana non procede dal profondo dell’inabitazione divina, né si irradia dalle profondità dello spirito come realtà interiore che s’effonde, è – pure assai spesso – il prevalere di un potere politico (la pax romana) e comunque anche nella possibilità più felice non è che realtà esteriore.

La pace del Signore non deve turbare perché dona al discepolo certezze che sono tanto spesso in distanza dalla realtà esteriore fino a convivere addirittura con la sofferenza, pure si radica nell’amore che porta il discepolo nella grande esperienza dell’amore del Signore: nell’abbraccio di Dio. L’esortazione seguente è a rallegrarsi del suo lasciare i discepoli: è un andare al Padre (che “è più grande di me”: tutto l’insegnamento di Gesù ha compimento nel Padre),  perché quell’andare è per il ritorno nella pienezza del “dimorare”. 

 

Don Giovanni Milani