“LAMPEDUSA” AL PALLADIUM,
UN PUGNO ALLO STOMACO
SU MIGRANTI E SPERANZA

LECCO – Squilli di cellulari e un’impalcatura di legno che sorregge un faro: è questo lo sfondo minimalista dello spettacolo “Lampedusa” (regia di Gian Piero Borgia e testo del britannico Anders Lustgarten) andato in scena al Palladium il 30 gennaio, che in certi punti è come un pugno nello stomaco.

In forma alternata si intrecciano due storie, che in apparenza sembrano non avere nulla in comune. Stefano, parlata siciliana e schiettezza da isolano (Fabio Troiano) è un pescatore di Lampedusa, innamorato del suo mare blu (“Nelle belle giornate mi sento come Cesare”) e fiero del proprio mestiere. Ma da tre anni di pesci non se ne vedono e si è ritrovato a fare il… pescatore di uomini. Non nel senso profondo che dava all’espressione Gesù, ma in quello concreto e tremendo degli “spazzini del mare”, chi raccoglie i cadaveri degli annegati, le tante vite spezzate: volti mangiati dai pesci, carne che si sfalda, corpi gonfi e appesantiti dall’acqua ma anche corpicini leggeri di bimbi… Un orrore senza fine galleggia sul Mediterraneo, culla di civiltà, “mare che ha partorito il mondo” e ora invece si richiude sui suoi figli.

Stefano è una persona semplice, toccato nel profondo, tormentato dagli incubi, nauseato dalla tragedia della ripetizione: perché continuano a partire? Che cosa li attira come una calamita verso l’Italia? La risposta gli viene dal sorriso gentile e disarmante di Madibo, un ragazzo del Mali che si è salvato: il deserto blu non è nulla rispetto agli orrori che questi disperati si lasciano alle spalle, “non ci fermeremo mai”. Stefano vede in quegli occhi la forza della speranza, qualcosa che gli Italiani hanno perduto, presi nel vortice delle piccole e meschine faccende quotidiane. La speranza è il motore dei migranti, che non hanno paura di nulla, nemmeno della morte che forse li attende fra le onde. “Vi sfido a guardarli negli occhi” è l’ultimo invito di Stefano, che suona come un richiamo forte all’attualità.

L’altra storia ci trasporta in una realtà vicina a noi: la protagonista (Donatella Finocchiaro), chiaro accento brianzolo, è un’immigrata marocchina di seconda generazione nata a Monza. Anche lei parla schietta, ma senza la malinconia tragica del pescatore: nei suoi discorsi i toni sono esagerati, infarciti di parolacce e di profondo cinismo. Lavora per conto di un’agenzia di riscossione crediti e ci vuole del pelo sullo stomaco per entrare nelle case, ascoltare le scuse e gli insulti. Fra l’altro gli insolventi sono tutti italiani, indebitati perché sedotti dalle sirene del consumismo o sprofondati nello squallore dell’inerzia.

Vite di un Paese alla deriva, che, mentre si riempie la bocca di luoghi comuni e stereotipi razzisti, ha smarrito la bussola dell’umanità. È possibile tornare a sperare nell’uomo? Il primo passo è guardare gli altri negli occhi.

Gilda Tentorio