RISATE E CANZONI PER TUTTI.
SOLD OUT DEGLI OBLIVION,
“FOLLETTI DELLA COMICITÀ”

LECCO – Il cineteatro Palladium straripa di pubblico. Lecco aspettava gli Oblivion in gennaio ma a causa del Covid lo spettacolo è stato rinviato. E finalmente il 16 marzo eccoli qui, i cinque “folletti della comicità in musica” che sulla rete hanno ormai milioni di followers. Per celebrare il decennale di attività sui palchi portano il loro Oblivion Rhapsody, un’ora e mezza di pura energia. Lo spettacolo è una raccolta, un “cucire insieme” i canti come facevano gli antichi rapsodi omerici; ma naturalmente il riferimento è anche all’iconica Bohemian Rhapsody dei Queen. Nel frullatore parodico degli Oblivion non c’è solo il panorama della canzone italiana, ma l’orizzonte si allarga, le contaminazioni convergono e… le canzoni di Gianni Morandi possono essere ricantate sui ritmi di Freddy Mercury!

È un fatto, sono sempre più bravi e irresistibili: vivacità e presenza in scena (cantano, suonano, ballano, si producono in mimi esilaranti), acrobazie vocali e soprattutto gioia vitale di ridere e irridere il mondo. Il repertorio affronta cavalli di battaglia ben noti ma in veste nuova, come i celeberrimi Promessi Sposi in dieci minuti, che non potevano certo mancare nella città manzoniana. La strategia vincente è il recupero di canzoni note con variazione di parole, per “rifare” il romanzo. Esilaranti i dialoghi, ad esempio quello fra Lucia e il suo rapitore: “Che cosa c’è?” “C’è che io sono l’Innominato col tè” (da Gino Paoli); terrorizzata, Lucia fa un “voto di castità permanente” (Franco Battiato), mentre don Rodrigo scopre di avere la peste “da una lacrima del Griso” (Bobby Solo). Il comico scatta a più livelli: i più giovani ridono per la situazione ricreata non ortodossa, nei più attempati scatta il confronto sulla distanza fra i due contesti (canzone e opera), attraverso il sottile gioco delle assonanze (Innominato/innamorato, Griso/viso). Così accade anche per Shakespeare, mentre l’Inferno di Dante viene ricalibrato come un viaggio nei gironi dei cantanti (Giusy Ferrero, Noemi, i Volo, Ligabue), con i loro stili inconfondibili: la voce roca o nasale, le vocali allungate, la zeppola di Jovanotti…

Oltre alla parodia, gli Oblivion riscrivono la storia, come succede nella History of the Rock, offerta come bis: cinque minuti di canzoni mitiche, eseguite a cappella, che sfumano una nell’altra, in una rincorsa di ritmi e capolavori assoluti. Il pubblico di ogni età ascolta in religioso silenzio, per esplodere in meritatissimi applausi finali.

Non può mancare un ampio capitolo sacro: il Vangelo in ritmo rap come “romanzo criminale”, dalla nascita di Gesù in un “cinque stalle” fino a un “Osanna nello spazio” a bordo di una navicella. Bellissima anche l’idea di ricantare l’Ave Maria di Schubert sui ritmi della disco-music Anni Settanta. Nulla di blasfemo: questi cinque malandrini ci mostrano come è facile abbattere i confini tra i generi, in un inno alla contaminazione.

I virtuosismi si ampliano all’orizzonte più generale della parola: esercizi alla Raymond Queneau, stili eccentrici rispetto ai contenuti (grandi battaglie della storia raccontate come partite di calcio), dissonanze fra melodia e senso o fra ritmo e pause. Insomma, la virtù della duttilità, che si estende all’elogio della lingua italiana. Gli Oblivion si impadroniscono anche del primo documento in volgare italiano, il Placito Capuano: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”. È una pausa ripetuta, quasi un ritornello, che ti fa apprezzare una frase “veramente volgare”. Con un sorriso, ci invitano quindi a riscoprire le radici e la bellezza plastica della nostra lingua e a dare un respiro nuovo alla tradizione, letteraria e musicale.

Gilda Tentorio