AL TEATRO DELLA SOCIETÀ
GIOELE DIX STREPITOSO
MALATO IMMAGINARIO

LECCO – I più lo ricordano nei panni dell’automobilista cafone e infuriato del cabaret televisivo Zelig. Ma Gioele Dix è molto altro: un istrione del monologo, attore impegnato, autore dei propri testi, caratterizzati da un’intelligente vena ironica e da uno humour nero capace di restituire spaccati della società contemporanea.

L’etichetta di “comico” tout court insomma gli va stretta. Qualche anno fa ad esempio ha scritto un’intensa storia intima, per ricordare le vicende della sua famiglia di origini ebraiche, perseguitata dalle leggi razziali (Quando tutto sarà finito, Mondadori 2014). Non stupisce pertanto il suo impegno come protagonista in un classico del teatro, Il malato immaginario di Molière, approdato a Lecco il 16 novembre scorso.

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Lo spettacolo è pensato come omaggio alla memoria del grande Franco Parenti, e infatti viene riproposta la versione del lontano 1982. La scena è quella di allora (Gianmaurizio Fercioni): linee e geometrie eleganti disegnano l’architettura domestica di una casa aristocratica, in cui la stanza del protagonista è avvolta da pareti di tulle nero, una sorta di prigione auto-isolante dalla realtà. Identica è anche la traduzione scelta (Cesare Garboli), che non ha perso in mordente e fluidità. Regista è ancora Andrée Ruth Shammah, oggi direttrice del teatro milanese che porta il nome di Franco Parenti, sublime interprete protagonista di quello storico allestimento. Come omaggio al Maestro, a venticinque anni dalla sua morte, la regista ha voluto tornare a una produzione-clou della battaglia culturale di Parenti, e per il ruolo di protagonista ha scelto Gioele Dix, che era stato ai suoi esordi parte di quella “squadra” storica (era Cleante, l’innamorato della figlia di Argante).

Una sfida non facile e intrisa di nostalgia. Dix smette i panni del mattatore monologante a cui è abituato per calarsi nel ruolo complesso di Argante, un vecchio ipocondriaco spaventato dal mondo e dalla morte, che si nasconde dietro la sua presunta malattia per giustificare la propria fragilità. Essendo “gravemente malato”, esige cure, attenzioni, ma anche rispetto e obbedienza. La servetta Tonina (Anna Della Rosa) è l’unica capace di tenergli testa: asseconda le sue bizze con il buon senso e risolve in leggerezza la vicenda, che rischia di virare in tragedia, quando Argante ordina alla figlia nozze indesiderate, pur di assicurarsi un genero medico.

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Tonina è in continuo movimento, armeggia con ampolle, cucchiaini, bicchieri, e poi entra, esce, si traveste e si diverte a stuzzicare o rabbonire il padrone; Argante-Dix invece per la maggior parte del tempo resta seduto sulla sua poltrona. Statico ma non immobile: si dimena fra i cuscini, controlla lo stato del catarro nel fazzoletto, si massaggia, picchietta impaziente i piedi, avvolti in calzerotti di lana; e anche quando tace, continua ad essere presenza scenica dominante attraverso le mille sfumature del viso, sotto la ridicola cuffietta da notte: sbarra gli occhi, arriccia il naso, fa smorfie di disgusto o di felicità puerile.

La sua poltrona in velluto rosso ha le ambizioni di un trono, ma somiglia piuttosto a un sedile da teatro. Argante infatti vorrebbe prendere le redini della situazione e governare i destini ma finisce invischiato nelle trame degli altri. Lui che dichiara di disprezzare il teatro e proprio l’arte di Molière, è spettatore di complessi intrecci di cui è involontario co-protagonista: vittima del teatrino dei dottori (diagnosi altisonanti e terapie vacue) come pure delle carezze interessate della moglie; inconsapevole ascoltatore della confessione d’amore della figlia (in duetto canoro con Cleante) e pedina dei riti sociali prima delle nozze. “Non ho nemmeno più il tempo di occuparmi delle mie malattie!” esclama spazientito a un certo punto, smarrito nel vortice di eventi che si susseguono intorno a lui. E alla fine sarà proprio uno stratagemma “teatrale” (Tonina si traveste da medico) a ristabilire gli equilibri.

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La regista non ha mutato la veste dello spettacolo: una ricostruzione filologica e senza tagli, due ore e mezza che scorrono con grande piacevolezza. La comicità è elegante, lucida, mai esibita ed eccessiva. L’interpretazione di Dix è misurata: il suo Argante non è maschera buffonesca di uno spietato egocentrico, né figurina di un’ossessione macchiettistica. Raggirato da medici rapaci e anche da una giovane moglie che vuole spillargli l’eredità, egli deve maturare la consapevolezza che occorre “guarire dalla cura”. È il mondo ad essere malato, sembra dirci Molière. L’Argante di Dix, burbero, fragile e capriccioso, arriva a farci quasi tenerezza: si aggrappa alla sedicente “scienza medica” con cieca ingenuità, lusingato di essere un tema di studio, e la sua fiducia nella terapia catartica del clistere è sintomo della solitudine e della distanza che lo separa dal mondo.

Dieci minuti di applausi, ben meritati.

Gilda Tentorio