ANCHE SOCCORRITORI LECCHESI IN BERGAMASCA PER LA SPELEOLOGA BLOCCATA

FONTENO (BG) – Sono giunti anche dal CNSAS lecchese alcuni dei soccorritori impegnati nel tentativo di recuperare la speleologa 32enne Ottavia Piana, rimasta intrappolata e ferita (per la seconda volta, le era già successo a luglio del 2023) nella grotta ‘Bueno Fonteno’, nei pressi del lago d’Iseo.

L’allarme ieri, sabato, in tarda serata, da parte dei suoi compagni di spedizione – riusciti invece a risalire. La donna è a circa 4 ore dalla zona di uscita. Secondo l’ANSA, i due medici che l’hanno raggiunta e visitata hanno descritto le sue condizioni come “non preoccupanti”, anche se cadendo ha riportato “traumi a gambe, torace e volto”.

Nel frattempo tutti i dottori e gli infermieri specializzati nel soccorso in grotta sono stati mobilitati, compresi i lecchesi. La chiamata generale è partita dalla IX Delegazione lombarda del Soccorso Alpino, che è quella che si occUpa degli interventi speleologici. Interessare anche le altre delegazioni diventa necessario per vari motivi, il primo riguarda il numero esiguo di speleologi specializzati, inoltre interventi di questo genere hanno un contenuto tecnico molto complesso.

Ne abbiamo parlato con il dott. Mario Milani, già direttore della scuola medica nazionale del Soccorso alpino e ora referente regionale, che ci ha spiegato che la prima squadra speleologica a scendere è di tipo sanitario, perché deve rendersi conto delle condizioni dell’infortunata o infortunato. A seguire intervengono i ‘telefonisti‘ a istituire e garantire la  linea di comunicazione tra soccorritori indoor e questi del campo base esterno, dove ha sede il coordinamento di tutto il soccorso che segue tempistiche determinate da rigide tabelle. “La prima cosa che accade in grotta in generale e quindi anche per i soccorritori – spiega il dott. Milani – è di perdere i riferimenti temporali. Per questo motivo è importantissimo schedulare le azioni da compiere, compresi i riposi e le tempistiche di avvicendamento”.

Ogni turno dura dodici ore a cui si devono aggiungere quelle di avvicinamento alla persona ferita. Per estrarla normalmente servono decine di ore e a volte dei giorni, un periodo lungo in cui i parametri sanitari vengono continuamente monitorati durante le tappe di trasferimento della barella. Ad ogni sosta viene allestita una tenda temperaturizzata, in uso in tutto il mondo, che fa ambulatorio, struttura inventata e progettata dal fisico italiano Giovanni Badino, scienziato di fama internazionale scomparso nel 2017.  Qui avvengono le visite di controllo e la somministrazione dei farmaci utili a contenere dolore, infiammazioni ed eventuali emorragie, nonché tutte le cure igieniche necessarie.

Il cammino verso l’uscita è spianato da specialisti che allestiscono il percorso, in più ci sono squadre di “fochini” e “disostruttori“, incaricati di allargare le eventuali strettoie che impediscono il passaggio della barella.

Ogni tratto impegna almeno due sanitari, il medico presso l’infortunata e una seconda figura in attesa all’imboccatura dei pozzi o delle caverne. È un lavoro per vari motivi estremo, con temperatura di 5 o 6 gradi e un tasso di umidità che arriva solitamente al 100%, in luoghi da illuminare e bagnati. Alla fine vengono coinvolti decine di soccorritori, da 40 fin a più di cento, fino a quando la persona verrà portata all’aperto e verrà consegnata ai sanitari del soccorso, fuori terra.

RedCro