“COSTRUIVAMO I FORNI PER AUSCHWITZ”. DA MALGRATE
ALLA GERMANIA, IL RACCONTO
DI UN PRIGIONIERO DI GUERRA

VASSENA reduceMALGRATE – Aveva solo diciannove anni Domenico Vassena quando, insieme ad altri soldati italiani, fu deportato in Germania dove rimase prigioniero per circa due anni, lavorando nella fabbrica che produceva i forni crematori per i campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau, Buchenwald, Dachau e Mauthausen.
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Come siete stati fatti prigionieri?

Nel luglio del ’43 svolgevo il servizio militare a Cremona, ero soldato da soli tre mesi, quando venne destituito il Governo fascista. A quel punto i tedeschi circondarono l’intero battaglione e, dopo aver fatto tappa a Mantova, ci deportarono in Germania, a Danzica, sul Mar Baltico.

Come è stato il viaggio?

Abbiamo viaggiato in carri bestiame, in condizioni precarie: quaranta persone stipate in un vagone, senza la possibilità di espletare le necessità fisiologiche ed alimentarci, il viaggio infatti è durato ben dieci giorni, durante i quali ci hanno dato da mangiare solo in due occasioni. Fortunatamente, seppur breve, la permanenza nell’esercito era stata sufficiente a fortificarci: da militari avevamo infatti mangiato meglio che da civili.

Dove vi hanno portato?

Vicino a Danzica, in un ‘Lager di smistamento’ dove c’erano migliaia di prigionieri. Vivevamo in baracche precarie, dove erano inesistenti i servizi igienici: bisognava fare tutto all’aperto,  in piedi su travi di legno, che sovrastavano grandi buche comuni. Mangiavamo solamente rape secche bollite ed  una  fettina  di  pane  al  giorno, per fortuna dopo venti giorni sono stato inviato per due mesi in Polonia in una fabbrica di lavorazione delle patate: lì almeno si riusciva a mangiare qualcosa! Poi ci hanno rimandati al lager di smistamento.

Sono seguiti altri trasferimenti?

Sì, siamo stati lavati e disinfettati, erano i primi di dicembre e ricordo che eravamo all’aperto, senza vestiti. Dopo la doccia ci hanno dato un bel piatto di minestra e un po’ di pane, ero stupito da quel trattamento, e in seguito capii il perché di quel pasto abbondante.

Per i tre giorni successivi, durata del viaggio in treno da Danzica a Erfurt, infatti non ci hanno mai dato da mangiare. Arrivati in città ci hanno fatto camminare per un giorno interno, dalla nostra colonna ogni tanto prelevavano dei gruppi per destinarli alle fabbriche che erano sul percorso. Io ero nell’ultimo gruppo, formato da un’ottantina di persone, finalmente verso sera siamo arrivati alla Topf and Sohn, dove sono rimasto per un anno e mezzo.

Cosa ti ricordi di quel giorno?

Era Santa Lucia e tutta la città, dominata da un’enorme chiesa, era in festa per il Natale imminente, ricordo che sembrava così strano per noi che eravamo prigionieri! Aveva nevicato e nonostante il freddo, indossavamo infatti ancora la nostra divisa militare estiva, eravamo talmente debilitati dalla mancanza di cibo che, lungo il cammino, ci siamo liberati di tutto quello che poteva esserci di peso, io addirittura avrei voluto togliermi le scarpe. Quando siamo arrivati alle baracche e ci hanno dato una scodella di minestra mi è sembrato di rinascere.

 Forni a tre muffole crematorio II - gennaio '43 Auschwitz-Birkenau State MuseumSapevate che la ditta produceva forni crematori per i campi di concentramento?

Sapevamo che produceva forni crematori, ma pensavamo si trattasse di forni industriali, o per i rifiuti. Non si sapeva nulla dei campi di concentramento degli ebrei, durante la guerra avevamo sentito che Hitler li voleva allontanare dalla Germania, ma solo una volta finito il conflitto abbiamo scoperto in che modo. Tuttavia tra di noi circolava la voce che se non ti comportavi bene e non lavoravi sodo, le guardie ti avrebbero portato via in un campo di punizione, e lì ti avrebbero bruciato nel forno, ma sembrava così assurdo, quasi una diceria per spaventarci!

IMG_7321Come si svolgeva la giornata tipo?

Ci svegliamo verso le sette nella baracca dove dormivamo in quaranta, con gli immancabili pidocchi. Dopo aver mangiato il ‘frustick’, pane e margarina, con una scodella di qualcosa che sembrava the, andavamo a lavorare: io ero impiegato nell’officina meccanica perché a Malgrate lavoravo come tornitore. Lavoravamo per 10 ore e ci fermavamo per il pranzo e la cena. La sera, dopo aver lavato la mia unica camicia, mi addormentavo.

Come erano i pasti?

Ci davano da mangiare una scodella di minestra e un tozzo di pane per tavolo. Io che ero il più giovane ero stato scelto per tagliarlo in dieci fette, che dovevano essere identiche se no sarebbe scoppiato un litigio, come spesso accadeva. Poi estraevamo a sorte chi doveva partire a scegliere tra le fette, ma la fame era tanta che perfino a me, che ero convinto di aver tagliato fette tutte uguali, la mia sembrava sempre la più sottile.

C’erano altri prigionieri?

Sicuramente sì, ma nel mio reparto ero l’unico italiano: lavoravano con me civili ucraini, stipendiati con soldi veri, mentre a noi venivano dati ‘marchi non spendibili’, carta straccia. Solo gli ultimi due mesi hanno cominciato a pagarci con soldi veri e a lasciarci un po’ più di libertà, c’erano infatti sempre meno guardie tedesche ora che la guerra stava per finire. Noi, appena mangiato il rancio, correvamo a spendere i nostri pochi marchi in una trattoria vicina dove ci servivano un altro piatto di zuppa.

Le guardie erano violente?

Se non si obbediva agli ordini la prima volta si incorreva in punizioni come il correre nella neve per qualche ora, la seconda volta si veniva portati via. Una volta un prigioniero si è ribellato e siamo stati puniti tutti, lui è stato picchiato.

C’erano momenti di svago?

La domenica non si lavorava, anche se comunque eravamo confinati nelle baracche. Durante quel giorno e nelle sere d’estate, in cui era chiaro fino a tardi, ho imparato a giocare a scacchi: ci eravamo fabbricati da soli, intagliandoli nel legno, tutti i pezzi della scacchiera.

Cosa è successo il giorno della Liberazione?

Il  12 aprile 1945 siamo stati liberati, i tedeschi erano scappati tutti e i civili mi hanno fatto ricoverare in ospedale perché stavo malissimo: avevo la broncopolmonite e ho rischiato di morire. Mi ricordo che c’erano anche tantissimi russi in ospedale, avevano festeggiato la vittoria con troppa grappa e stavano male. Sono rimasto ricoverato per cinque mesi e ad ottobre sono stato finalmente rimpatriato dagli italiani che nel frattempo si erano organizzati per mandare a casa i prigionieri .

Avresti potuto evitare tutto questo?

Sì, chi passava dalla parte dei tedeschi poteva tornare in Italia, ma quasi nessuno aderiva. E poi alcuni scappavano a proprio rischio e pericolo, ma erano in pochi perché l’impressione, fin da quando siamo stati presi a Cremona, era che la guerra sarebbe finita da lì a poco, nessuno di noi pensava che invece sarebbe durata per altri due anni.

La cosa più brutta che hai visto?

Un uomo era talmente disperato che, anche una volta finita la guerra, ha voluto seguire i tedeschi come prigioniero. Era talmente assuefatto alla prigionia da non sapere più che farsene della libertà.

Hai qualche bel ricordo legato alla guerra?

Sì, nonostante tutto l’orrore ricordo la disponibilità della gente: quando viaggiavamo sui treni diretti in Germania alle stazioni di Rovereto, Trento e Bolzano, le persone ci infilavano nei finestrini pere ed altra frutta. Ad Erfurt, l’ultimo mese che potevamo spendere soldi veri, la vecchia cameriera della trattoria, che chiamavo ‘mutter’, ‘mamma’, vedendomi così giovane e malnutrito mi portava sempre una scodella in più di quella che mi sarei potuto permettere. E anche fra noi prigionieri ci aiutavamo: ricordo di un vecchio soldato che mi cuciva i pantaloni quando si strappavano o quando, dimagrito, mi cadevano. Quando ero ricoverato in ospedale sono addirittura venuti a trovarmi due prigionieri del mio stesso paese, Malgrate!

Come è stato il ritorno alla vita ‘normale’?

Purtroppo una volta tornato ho passato altri cinque anni in ricoveri fra ospedali e sanatori del lecchese. Non avrei mai pensato di sposarmi, figurarsi arrivare a novant’anni!

C’è qualcosa che la guerra ti ha insegnato?

La pazienza e la speranza. Perché nonostante tutto io posso ritenermi fortunato.


Ch. V.

vassena tessera