LECCO – Il terremoto dei dazi, imposti dalla sconclusionata politica trumpiana, sta gettando nel panico tutte le economie mondiali, e nonostante la nostra premier tenti di gettare acqua sul fuoco, c’è da preoccuparsi. Gli effetti di questo caos avranno dei risvolti importanti sull’economia europea e su quella del nostro Paese, soprattutto sulle aziende industriali, tenendo conto che ormai il calo della produzione industriale che si protraeva da 24 mesi era già stato dichiarato un evento strutturale, e che ora non ha che da peggiorare.
Vogliamo allora chiederci cosa ne sarà delle politiche scolastiche che ci sono in corso e che dovrebbero poi sostenere quelle economiche e sociali, a partire da quelle della riforma dell’istruzione tecnica e professionale. Ne chiediamo come sempre all’esperto Valerio Ricciardelli.
D. Ing. Ricciardelli, sta succedendo un terremoto di proporzioni incredibili; come si ripercuoterà tutta questa situazione sulle politiche scolastiche e sul famoso mismatching di cui abbiamo scritto molte volte, tra la mancanza di tecnici per le nostre imprese e l’offerta proveniente dal mondo della scuola?
R. Innanzitutto dobbiamo vivere alla giornata, la situazione è molto complessa e estremamente fluida. Ciò che mi ha colpito è la sensazione che si sia scoperto solo ora il problema, quando è da mesi che diciamo e scriviamo che eravamo di fronte all’imprevedibilità della politica trumpiana, e che non sarebbe stata favorevole per le nostre sorti. Tutto ciò che avevamo scritto finora, in materia di politica scolastica, riferendoli soprattutto all’istruzione tecnica, si reggeva su alcuni fatti che sono stati completamente stravolti. Ci aspettavamo, a livello europeo, l’applicazione delle misure indicate da Draghi e a livello italiano la pubblicazione del famoso libro bianco sulla politica industriale che il Ministero delle Imprese e del made in Italy aveva promesso per lo scorso mese di febbraio, indicando non solo che era vitale per indirizzare le vie da percorrere per le nostre aziende industriali, ma che era anche il “master plan” per altri piani strategici conseguenti, di cui ha bisogno il nostro Paese.
D. E adesso?
R. È cambiato il mondo. È come se avessero gettato un bomba nucleare di cui ancora non abbiamo, e per un po’ non avremo, la percezione dei danni. Qualche giornale scrive quello che noi abbiamo scritto da un pezzo: guardare a un nuovo mercato per l’export delle nostre imprese industriali.
D. E quale?
R. In prima battuta i Paesi africani sono 54, e sono quelli che nei prossimi decenni avranno una importante crescita demografica e quindi avranno bisogno di una importante industrializzazione per costruirsi le aziende che dovranno produrre i loro beni di consumo, a partire dalle aziende alimentari, quelle del beverage, quelle farmaceutiche, quelle per l’energia, per il light manufacturing e via discorrendo. Per questi particolari settori il nostro Paese dispone di un importante e competitivo “portfolio di machinery”, ossia di macchinari e impianti, proveniente da quella punta di diamante del made in Italy che è il settore OEM, dove la sigla è un acronimo di Original Equipment Manufacturer, che significa produttori di “apparecchiature originali”. È un settore prevalentemente presente nelle 4 regioni del Nord Italia, Lombardia, Piemonte, Emilia, Veneto, con una percentuale importante di aziende lombarde. Ma ci sono altri settori industriali da indirizzare con buone probabilità di successo in altre zone del mondo.
D. E per la parte che riguarda i beni alimentari: il vino, i formaggi e altro?
R. Ovviamente i mercati dei paesi africani non sono i più attrattivi, bisogna cercare altrove.
D. E le politiche di riforma dell’istruzione tecnica come dovrebbero essere attenzionate in questa situazione di straordinarietà?
R. Certamente stanno cambiando tutti gli scenari. La soluzione spesso ripresa dagli addetti ai lavori di mettere attorno al tavolo scuole e aziende per progettare una nuova istruzione tecnica aveva già dei grossi limiti in precedenza e ora è del tutto superata. Innanzitutto quali scuole e quali aziende dovrebbero sedersi al tavolo, e come dovrebbero comunicare tra loro e su che cosa. Poi le aziende ti dicono l’esigenza del momento e non la prospettiva verso cui evolveranno le professioni tecniche. Per questo servono altri soggetti che sanno interpretare gli eventi, costruire gli scenari, identificare le possibili soluzioni. Insomma, bisogna tirare in ballo quella che è chiamata l’industria della conoscenza, ossia quelli che conoscono già queste cose e che sanno usare le giuste grammatiche e sintassi per provvedervi. Ne abbiamo già scritto ampiamente nel passato; poi sono tutte cose ben argomentate nel mio testo “Ricostruire l’istruzione tecnica”- Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare-, che, ahinoi è sempre più di attualità.
D. E il mercato generato dall’industrializzazione dei Paesi africani è facile da affrontare? E come può essere utile una nuova istruzione tecnica?
R. Ne sto scrivendo da tanto tempo e anche su questo giornale ne abbiamo scritto altre volte. Il machinery del nostro made in Italy può essere ben indirizzato in questi paesi. Occorre però prestare attenzione che il modello di business che si usa in questi mercati non è quello che usiamo, per esempio, negli Stati Uniti, ossia il “business to business” (B2B), ma prevalentemente il “business to Government” (B2 G), dove i governi locali per finanziare questi investimenti vi devono provvedere con complesse operazioni finanziarie, con il “buyer credit” o il “supplier credit” che richiedono delle competenze commerciali particolari.
D. E le abbiamo queste competenze?
R. Quando venne istituito il famoso liceo del made in Italy scrissi più volte che era una nuova scuola che non aveva nessuna ragione di essere, ma che, probabilmente, originava da un approccio ideologico. Il made in Italy per essere “costruito e venduto” in giro per il mondo ha bisogno di ben altre competenze. Avevo poi indicato che serviva, in alternativa al liceo, una rete di istituti tecnici per il made in Italy, distribuita per lo meno nelle 4 regioni del Nord, con due indirizzi specialistici ben precisi: il primo tecnico, per acquisire tutte quelle competenze per fare un “prodotto” sempre innovativo e competitivo; il secondo indirizzo di carattere commerciale, dove si acquisiscono tutte quelle competenze per vendere dei “prodotti industriali” sofisticati in un mercato dove il modello di business non è quello usuale che conosciamo. Teniamo conto che gli altri paesi evoluti queste competenze le hanno da tempo. Poi serve una politica commerciale del nostro Paese che sia coerente con questi nuovi mercati e adeguata e centrata molto sulla cooperazione internazionale. È anche questa politica che ci si aspetterebbe di trovare nel famoso libro bianco dell’industriale, dove lo Stato è previsto che assuma il ruolo di Stratega.
D. E per rafforzare la promozione degli altri beni made in Italy non industriali?
R. Come ho già detto non serve il liceo del made in Italy, ma lo sviluppo e l’adeguamento alle nuove necessità degli importanti istituti professionali che ci sono già.
D. E l’attuale rapporto di Unioncamere usato per fare orientamento, che descrive “diplomati e lavoro” ci dà qualche aiuto maggiore?
R. Ne parlo i prossimi giorni in un Talk con altri esperti. È comunque molto disallineato con la realtà dei fatti. Un conto è parlare di mestieri che abbisognano di competenze strategiche, quelle che servono per la crescita dell’economia, un conto è parlare di mestieri che hanno bisogno di competenze usuali, operative. Poi, ogni volta che si individuano dei mestieri bisogna anche indicare molto bene la variazione della loro employability, per evitare il rischio che siano delle professioni che spariscono in tempi brevi.
D. Allora cosa si può fare?
R. Quando si ragiona sulla ricostruzione dell’istruzione tecnica, per creare la conoscenza e le competenze necessarie al sistema economico del paese, occorre ragionare su due prospettive: quella reattiva, per rispondere a un bisogno immediato, e in tal caso si possono mettere al tavolo le scuole e le imprese, e quella proattiva di tipo push, che deve farci guardare lontano, indicando le soluzioni idonee per sostenere il futuro dell’economia. Questa seconda prospettiva non c’è.
D. Il grave disallineamento tra la mancanza di tecnici e l’offerta di diplomati di cui abbiamo spesso scritto, è ancora attuale?
R. Un grave disallineamento c’è, sia quantitativo che soprattutto qualitativo; anzi nel prossimo futuro la dimensione qualitativa aumenterà. Poi come si modificherà questo disallineamento alla luce di quello che sta succedendo, rispetto a quello che avevamo descritto tempo fa, lo vedremo prossimamente.
D. Come vogliamo chiudere?
R. Con l’ottimismo della speranza (molto poca) e con il pessimismo della ragione.