LECCO – Dopo nove mesi di intensa e puntuale campagna tesa a spiegare ai cittadini della provincia e non solo perché si dovrebbe votare “No” al referendum, il comitato lecchese del Coordinamento democrazia costituzionale ieri sera è tornato in sala Ticozzi, dove era partito il 25 febbraio scorso, per chiarire gli ultimi dubbi degli elettori che tra pochissimi giorni saranno chiamati a esprimersi con un “Sì” o con un “No” sulla proposta di riforma costituzionale a firma Renzi-Boschi.
Relatore della serata l’infaticabile Duccio Facchini che ha ripreso due degli aspetti più importanti della revisione della legge fondamentale dello Stato: il superamento – o presunto tale – del bicameralismo perfetto e la riforma del Titolo V. Prima di entrare nel merito un rilievo sul titolo della legge che sarà riportato sulla scheda elettorale domenica: “È un titolo un po’ ingannevole perché la riforma non si esaurisce nel suo contenuto in quelle poche espressioni ma implica anche aspetti che non vengono per niente considerati nel titolo. Inoltre, nelle due precedenti occasioni in cui il popolo italiano è stato chiamato ad un referendum confermativo su una modifica alla Costituzione, mai si era trovato a votare un testo che già suggeriva una direzione come in questo caso”.
Ma, entrando nel merito, il giornalista ha concentrato la prima parte del suo intervento su quella che dai sostenitori del “Sì” è presentata come una grande novità, che snellirà tempi e costi della politica: l’eliminazione del Senato così come lo conosciamo e la sua sostituzione con una camera di rappresentanza delle autonomie locali. “La prima contraddizione è che la revisione comporta il concentramento nella Camera dei deputati della prerogativa di dare e togliere fiducia al Governo, il potere di controllo sull’operato del governo e quello di indirizzo politico, lasciando al Senato il compito di rappresentare le autonomie e le realtà territoriali. Eppure entrambe le camere conservano il potere legislativo, competenza che non spetterebbe ad una camera non elettiva e di rappresentanza”.
Ma qualche problema, secondo l’analisi del Coordinamento, ci sarebbe anche nel nuovo articolo 57: “Il nuovo Senato non conterà più 315 membri ma 100 di cui 74 scelti tra i consiglieri regionali, 21 scelti tra i sindaci e cinque nominati dal Presidente della Repubblica. Questi ultimi resteranno in carica per sette anni non rinnovabili, gli altri 95 saranno eletti in base ad una futura legge che dovrà regolamentare la materia, ad oggi sarebbero invece scelti dai consigli regionale, su liste bloccate e la durata del loro mandato coinciderebbe con quella dell’organo da cui sono stati eletti. Un Senato a porte girevoli dunque”.
Altro tema cruciale toccato durante la serata è quello del nuovo articolo 67 che non prevede il vincolo di mandato per i futuri senatori: “Se questo è un diritto inviolabile per ogni deputato eletto dai cittadini, ci si aspettava che fosse introdotto il vincolo per i senatori che dovranno rappresentare i territori alla Camera alta, dal momento che il loro mandato dovrebbe essere proprio quello di portare all’attenzione del Senato le esigenze specifiche di un comune o di una regione”.
Prima di affrontare il tema del rapporto tra Stato e Regioni, è passato sotto la lente di ingrandimento di Facchini il presunto superamento del bicameralismo perfetto. “Nel primo comma dell’articolo 70 si legge che Camera e Sanato legiferano assieme su 16 materie, tra cui quella di modifica costituzionale per cui si dovrebbe però avere un mandato popolare per farlo. Ma come la Camera alta esercita il suo potere legislativo? Entro dieci giorni dopo che la Camera dei deputati ha approvato una legge, su richiesta di un terzo dei suoi componenti e con 30 giorni di tempo per proporre delle modifiche, giorni che diventano 15 se in esame è la legge di stabilità. Questo – rileva il relatore – pone in forte discussione l’efficienza e la qualità legislativa dei nuovi senatori, anche in considerazione del fatto che saranno part-time a palazzo Madama, essendo contemporaneamente sindaci e consiglieri regionali”.
Ma veniamo al punto cruciale della campagna referendaria: secondo i sostenitori della revisione essa abolisce il ping-pong che obbliga le leggi a rimbalzare per anni da Camera a Senato bloccando l’intero Parlamento. “La legge Fornero e il lodo Alfano sono passati in meno di 20 giorni, quindi se una legge rimane per anni bloccata nell’iter legislativo è più una questione di volontà politica che di malfunzionamento del sistema. Inoltre c’è da sottolineare che nella legislatura 2008-2013 le leggi approvate senza il ping-pong ma con una sola lettura alla Camera e al Senato sono state il 76 per cento”.
Seconda fondamentale modifica introdotta dalla Renzi-Boschi e approfondita durante il dibattito è stata, come anticipato, quella al Titolo V: “Cambia con la riforma il rapporto tra Stato e Regioni e cambia nel senso di un accentramento dei poteri nelle mani dello Stato – afferma Facchini –. Le competenze attribuite a Roma sono 21 mentre otto rimarrebbero alle Regioni. A parte l’ambiguità della legge che dice che alle ‘Regioni virtuose’, cioè quelle con un bilancio in equilibrio, possono essere concesse più competenze, ma non dice se questo virtuosismo deve sussistere solo al momento dell’attribuzione delle competenze o anche per tutta la durata del loro esercizio, ci sono altri punti da chiarire. Facciamo l’esempio del turismo: nel testo di revisione si legge che la promozione turistica dovrebbe tornare in esclusiva allo Stato, mentre alle Regioni spetterebbe la valorizzazione e l’organizzazione regionale del turismo. Questa è competenza concorrente, esattamente come adesso.
Inoltre il nuovo articolo 117 recita: ‘Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale’. Disposizione che assieme all’articolo 72 sul voto a data certa e in considerazione dell’assetto parlamentare che si potrebbe configurare con la nuova legge elettorale, tuttora in vigore, per cui il 54 per cento dell’unica Camera elettiva è rappresentato dal partito di Governo, che può scegliere facilmente il Presidente della Repubblica, rende questa Riforma tacciabile di solcare un tratto piuttosto autoritario nella storia democratica del nostro Paese”.
Manuela Valsecchi