SCONFINARE CON ‘IL LEGIONARIO’:
L’ANALISI DELLE CONTRADDIZIONI
CHE SERVE AL CINEMA ITALIANO

il legionario presentazione (1)LECCO – Se lo scopo di SConfinamenti, la sezione curata da Les Cultures per il progetto SCultura – Spazio Cultura Lecco di Teatro Invito, è quello, appunto, di sconfinare, di andare al di là di barriere non solo geografiche ma anche concettuali, l’anteprima lecchese del corto Il legionario, seguita da un vivace dibattito in sala con il regista, lo sceneggiatore e l’attore protagonista, unita alle testimonianze di quattro nuovi italiani, si è rivelata il modo più azzeccato per iniziare questo percorso.

Immaginate un celerino, un agente del reparto mobile della polizia di Stato, nero. Casco blu, tenuta antisommossa e pelle scura. Questa è l’immagine, che nel 2015, è balenata in mente a Hleb Papou (a sinistra), il giovane e talentuoso regista del film, bielorusso naturalizzato italiano – come lui stesso si è definito – mentre scriveva il suo lavoro di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia. “Tutto nasce da questa immagine – racconta”. Poi l’immagine si è fatta più dettagliata: il celerino nero è nato a Roma da genitori africani e si chiama Daniel. È un ragazzo di seconda generazione, un nuovo italiano, come si dice tecnicamente.

il legionario presentazione (2)Ecco il primo sconfinamento. “Ho voluto mettere questo personaggio in una struttura in cui cittadini come lui solitamente non ci sono per rompere gli schemi – spiega Papou – In Italia non ci sono poliziotti, medici, avvocati, militari neri o asiatici o sudamericani”. O, almeno, non ci sono ancora. Su questo punto Il legionario fa due cose straordinarie. Non solo scardina l’idea stereotipata dell’”immigrato”, dello “straniero” che fa certi lavori e non altri – e tali luoghi comuni si riflettono anche sulla professione di attore, come fa notare il protagonista Germano Gentile, nato in Brasile e adottato a venti giorni: “Mi sono un po’rotto le scatole di fare ruoli stereotipati come il bodyguard, lo spacciatore…quindi grazie Hleb”. Questo corto, però, riesce anche, staccandosi dalle piatte rappresentazioni del presente, a sconfinare nel futuro prossimo, quando a contare, a interessare non sarà più l’immagine statica del “celerino nero” ma la sua storia, il conflitto che si trova a dover vivere.

il legionario frameDaniel, infatti, un giorno scopre che la sua squadra dovrà sgomberare il palazzo occupato dove vive sua madre con suo fratello. Scisso tra l’amore per la sua famiglia e la fedeltà al suo corpo di polizia dovrà scegliere da che parte stare e andare fino in fondo. “Sono la scelta, la divisione e la possibilità le parole-chiave di questo film – commenta Marco Airoldi, docente di filosofia e storia all’Istituto Volta di Lecco nella sua introduzione al corto dell’amico d’infanzia Hleb. La pensa similmente anche Goffredo Fofi, grande critico che ha seguito il percorso cinematografico di Papou e che ha inviato una sua “notula” di commento in occasione della serata. “Perché mi è così piaciuto il breve film di Gleb Papou? – scrive – Perché è tra i pochi a raccontare contraddizioni di oggi e soprattutto di domani, e lo fa senza trionfalismi di sorta, e senza lamentele semplicemente raccontando, in modo stringente e persuasivo; perché l’analisi delle contraddizioni, vecchia ricetta benemerita, oggi non va molto di moda e invece deve tornare a esserlo”.

il legionario presentazione (4)E di lavoro di analisi si è certamente trattato. “Per fare Il legionario – spiega lo sceneggiatore Emanuele Mochi – abbiamo fatto tanta ricerca. Ci siamo messi in contatto sia con il mondo della celere sia con quello delle case occupate. Abbiamo passato nottate nella caserma di Fiumicino con il “Drago”, l’agente che ci ha raccontato come pensa un celerino, come ragiona e agisce; e intere giornate con gli occupanti di un palazzo ex Indpap abbandonato. La signora che impersona la mamma di Daniel e uno dei poliziotti non sono attori, sono realmente un’occupante e proprio il “Drago”. Abbiamo fatto questa ricerca sul campo per raccontare con onestà queste realtà, non volevamo fare i paraculi”.

il legionarioUn’analisi delle contraddizioni ancora più viva e coraggiosa perché non si risolve in una sintesi conciliatoria o in un’ultima parola definitiva. “È chiaro – dice Papou – che non volevamo fare un finale, si potrebbe dire, buonista. Abbiamo deciso di realizzare un certo tipo di progetto e dovevamo andare fino in fondo. Per me non c’è una parte nel giusto e una nello sbagliato, ma è uno scontro del giusto contro il giusto”. E la scena finale sul tetto del palazzo appena sgomberato con Caterina, giovanissima occupante e amica d’infanzia di Daniel che lo guarda zitta, rappresenta, forse, quell’al di là dei confini, non sintetizzabile e aperto, ma presente. “La ragazza – dice il regista – è testimone dell’Italia che sta cambiando ed è cambiata”.

Chiara Stefanoni