VIVERE IN UN CAMPO PROFUGHI:
L’ESPERIENZA DI AYSAR
NATO E CRESCIUTO A BETLEMME

Aysar Al-Saifi Casa sul pozzo (3)LECCO – Vivere in un campo profughi implica scegliere tra due alternative radicalmente opposte: accumulare rabbia oppure educarsi. Aysar Al-Saifi, nato e cresciuto nel campo profughi di Dheisheh-Betlemme, collaboratore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati e scrittore, ha deciso per la seconda. “Anche se siamo rifugiati non significa che non possiamo imparare a cantare e ballare o diventare scrittori. Non significa che non possiamo sognare”: così ha affermato lunedì sera a La Casa sul Pozzo su invito dell’associazione Casa per la Pace.

Il campo di Dheisheh-Betlemme raccoglie in 1,5 kilometri quadrati 15 mila persone.  Di contro a un immaginario stereotipato che associa biunivocamente i campi alle tende e alla provvisorietà, Aysar avverte che dal 1956 le tende sono scomparse per lasciare lentamente spazio a baracche ed edifici: oggi i campi sono città, paesi, quartieri.

La scuola dove Aysar ha studiato da ragazzo era una semplice baracca di metallo, che ospitava classi di circa 45-50 studenti: “d’inverno mia madre mi metteva delle borse di plastica sopra le calze e sopra le scarpe per proteggermi dalle infiltrazioni d’acqua. A volte il rumore della pioggia che batteva sul tetto di lamiera era così forte che si decideva di interrompere la lezione e ci si metteva a cantare”.

Aysar Al-Saifi Casa sul pozzo (2)Se una condizione così disperante non ha impedito alla maggior parte dei compagni di Aysar di proseguire gli studi e laurearsi, non tutti hanno condiviso la stessa buona sorte. Una parte di loro è stata infatti arrestata dall’esercito israeliano. Così è accaduto anche al fratello di Aysar il 14 luglio scorso: “per due mesi non abbiamo ricevuto nessuna informazione, non sapevamo nemmeno se fosse vivo o morto. Nessun avvocato poteva incontrarlo. Ora sappiamo che è trattenuto perché accusato di essere attivista politico”.

Ma cosa significa essere attivisti politici nei campi? Semplicemente partecipare alla resistenza popolare, nonostante l’inveterato automatismo per cui “se cerchiamo di prendere iniziativa, veniamo immediatamente etichettati come terroristi”. La resistenza popolare si esprime dal 1967 attraverso proteste e manifestazioni, scioperi e progetti educativi nel costante tentativo di attirare l’attenzione internazionale su un popolo privato di diritti e giustizia.

La prospettiva di Aysar sul futuro non è tuttavia quella di perseguire accanitamente la costruzione di due Stati per due popoli: “i politici palestinesi sono rimasti bloccati in una visione di rivendicazione dell’indipendenza, irrealizzabile nella situazione attuale per l’aumento pervasivo delle colonie israeliane e per la presenza stabile di alcuni Palestinesi in territorio israeliano”.

Se una netta divisione non è più concretamente praticabile, tutta la speranza di Aysar è riposta nelle nuove generazioni, perché capaci di immaginare un futuro diverso e un radicale ribaltamento di sguardo: “credo nella soluzione di un solo Stato per due popoli perché sono fermamente convinto che sia possibile condividere questa terra”.

Ileana Noseda