DON GIOVANNI MILANI MEDITA
NELLA QUARTA DOMENICA
DOPO LA PENTECOSTE

Il piccolo ritaglio di vangelo che ci è porto in questa liturgia domenicale è tratto da quel passaggio di Luca che è detto la piccola apocalissi lucana provocata da una domanda dei farisei al Signore Gesù: “Quando verrà il regno di Dio?”. Gesù parla dei giorni del Figlio dell’uomo in cui ci sarà desiderio vederlo senza poterlo fare. Un tempo – i suoi giorni – dopo che “soffra molto e venga rifiutato da questa generazione”.

Nonostante il tono facilmente interpretato come tempo supremo, tempo di giudizio, dobbiamo pensare a quei giorni, non come il tempo della sua venuta definitiva, piuttosto proprio come il tempo della sua attesa, il tempo della Chiesa, il tempo della
nostra fede.

È vero che il tono di questo passaggio non pare proprio ottimista: Gesù fa dei suoi giorni un duplice paragone all’antico: il primo lo trae da vicenda tanto lontana sino a richiamare i primordi dell’umanità, i tempi del patriarca Noè, quando lui solo con la sua
famiglia, nel distacco indifferente di tutti “entrò nell’arca”: fu salvato da Dio. Il secondo paragone è per “i giorni di Lot”, nei quali pare si riproduca situazione, simile all’antica del primo richiamo, poi sappiamo ancor più greve di violenza.

L’acqua del diluvio e il fuoco dal cielo di Sodoma dicono il disastro assoluto di un’umanità distratta da Dio e solo dedita alla cura di sé stessa (la storia antica ci parla anche di perversione essa stessa distruttiva d’umano), ma Gesù, oltre questi richiami di
paragone all’antico, qui non parla più dei “giorni del Figlio dell’uomo”, passa invece al singolare, al “giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà”.

Qui, il riferimento più immediato è alla imprevedibilità dell’evento con la valutazione evidentemente negativa di quei comportamenti indifferenti di solo riferimento a sé stessi di chi non avrà avuto atteggiamento di cura ed attesa di quanto
essenzialmente conta: siamo al giudizio. Allora ecco il monito dell’ultimo versetto, lo dobbiamo riferire a noi, al nostro e ad
ogni tempo: “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, ma chi la perderà la manterrà viva”.

È evidente che qui il “salvare la propria vita” ha corrispondenza con quel modo antico e chiuso su sé stessi di salvarla: sarà perdita.
Invece il perderla per sé, è darle senso nel Signore Gesù (nel seguirlo anche nei passi difficili dove “è necessario che egli [il Figlio dell’uomo] soffra molto e venga rifiutato”): questa sarà allora salvezza vera.

Don Giovanni Milani