VIAGGIO AL FERRHOTEL/2:
L’ODISSEA INFINITA
E I RACCONTI DELLA SPERANZA

LECCO – Alcuni scappano dalle bombe, altri dalle persecuzioni religiose, altri dalla miseria. La storia dei richiedenti asilo politico al Ferrhotel di Lecco è unica per ogni persona diversa. Ma c’è un passaggio comune a tutti: il viaggio. Sempre lungo ed estenuante, se va bene – si fa per dire – si deve solamente attraversare il Mediterraneo su un barcone che rischia di affondare a ogni onda. Se va male prima bisogna percorrere le foreste dell’Africa centrale, ma soprattutto il vastissimo deserto del Sahara. Per altri invece la tratta è diversa e ci si muove sulle strade asfaltate, ma stipati sui camion. Un viaggio lungo quanto terribile, perché spiegano che molti che coloro che partono non arrivano a destinazione vivi.

profughi stefano palladino 2Benard Elijah è scappato da Kano, in  Nigeria. Da lì è andato in Libia. Poi però ha dovuto lasciare l’Africa dopo la caduta di Gheddafi. Il 28enne, nativo della metropoli nigeriana colpita da un attentato da parte di Boko Haram nel 2012 – e comunque al centro delle violenze dell’organizzazione terroristica – è già scappato due volte dai conflitti. E ora si trova ospite in un centro ad Airuno dove, tra l’altro, aiuta a lavorare come elettricista, il suo reale mestiere. In questi giorni si trova anche al Ferrhotel, per sistemare gli impianti.

“Ho lasciato la Nigeria nel 2009, appena sono riuscito a organizzarmi – racconta –. Kano è una zona pericolosa e ci sono spesso combattimenti. Io sono cristiano quindi mi sono attrezzato e sono riuscito a raggiungere la Libia”. Negli ultimi anni della Giamahiria, il regime di Gheddafi, riusciva a lavorare tranquillamente, ma con la caduta del dittatore ha dovuto lasciare l’Africa ed è così sbarcato in Italia dopo un duro viaggio sul Mediterraneo. “Mi piacerebbe poter trovare un posto dove poter lavorare e stare in pace, con la mia famiglia”.

A Kano ha lasciato gli amici, mentre i parenti sono scappati a sud. “Sono riusciti a fuggire anche loro, fortunatamente. Li sento spesso: a volte chiamo e altre volte comunichiamo via mail”. Il tutto con il proprio telefono.

profughi stefano palladino 1Un altro che comunica con i propri affetti che ha lasciato in patria è Mohammad Alauddin, 36 anni, originario del Bangladesh. “Sono scappato un paio di anni fa – spiega –. Sono musulmano, ma ho sposato una donna di famiglia indù e sono stato perseguitato per questo. Così ho deciso di andare via. Alla fine sono giunto in Italia per caso. Il mio obiettivo è di poter vivere serenamente facendo il meccanico. Ogni tanto sento ancora mia moglie e i miei familiari”.

Ed è proprio la comunicazione che li tiene ancorati alla propria terra natia. Che però non sanno quando potranno rivedere.

F.L.