“In principio era il Verbo”. Anche Giovanni inizia il suo scritto con la prima parola dell’intera sacra Scrittura, ne moltiplica i richiami, non solo a Genesi e alla creazione, ma pure ai libri sapienziali, dice del λόγος (parola che abitualmente rendiamo nel latinismo di “Verbo”) e ci esprime, prima di tutto, il comunicare, dialogare che è in Dio e che qui anche si volge all’uomo.
Ci è offerto, nella sua prima parte, il prologo di Giovanni: lo abbiamo letto ed ascoltato molte volte, con il rischio sottile di sentircelo consueto nello scorrere delle parole, meno nell’attenzione alla sua densità, ripresa – già dicevo – dell’antica Scrittura e annuncio meraviglioso del Verbo che si fa uomo.
Questa densità subito si esprime nei rapporti divini: “il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio”, con sottolineatura della sua potenza creatrice: “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”. Ma all’essere divino si aggiunge che: “in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”.
L’insistenza a dirci della grandezza divina del Verbo è evidentemente tesa al contrasto del suo accedere al mondo: “Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne tra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto”.
Ma non è certo negativo l’annuncio di Giovanni che dopo quelle premesse, grandiose di divino e pur fosche d’accoglienza, ci dice la mite e grande determinazione del Verbo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”.
Giovanni si fa testimone di questo evento di grazia. Per noi è arricchente gustare le sue espressioni così profondamente evocative della grazia del divino che si fa uomo.
Quel “si fece carne” sappiamo è l’abituale espressione scritturistica che dice l’umano nella sua debolezza, ma è anche interessante quell’”καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν” che rendiamo con: “e venne ad abitare in mezzo a noi”, ma propriamente parla del “porre la tenda” con lucida evocazione che, mentre dice fragilità provvisoria, richiama la tenda del deserto antico, segno e presenza di Dio.
Il mistero del Natale, che continuiamo a meditare in questo dilatarsi liturgico della sua ottava, è il principio – inizio e fondamento – della salvezza offerta a noi proprio nell’immedesimarsi di Dio con l’umano, perché quelle “tenebre che non l’hanno accolto” siano vinte dalla sua luce e vita, che solo la nostra fede impara ad accogliere.
Don Giovanni Milani